Intervista a Marco Risi

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  1. macina
     
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    Per tutti coloro che si sono lasciati scuotere nelle emozioni dalla cruda veridicità di un film come “Meri per sempre”, il nome di Marco Risi dovrebbe significare qualcosa. Regista figlio del grande Dino, le sue produzioni spesso sono incentrate sulla descrizione, talvolta spietata, della dura realtà delle situazioni. Incontrato al recente Grinzane film festival di Stresa, il cineasta parla in modo trasversale della sua carriera, esponendo la sua concezione di cosa voglia dire fare cinema.

    Da dove nasce questo attaccamento al reale?

    Da ragazzo, amando il tennis, mi soffermavo ad osservare il volto del giocatore perdente, cercando di capire cosa gli passasse per la testa. Ho sempre nutrito una certa fascinazione per le reazioni della natura umana di fronte alle brutalità della vita. I meccanismi che scattano nella mente di chi sta in basso nella scala gerarchica e le reazioni conseguenti: questo ho cercato di trasferire in certi miei film.

    E' partito però dalla commedia.

    Sì, le prime tre pellicole che ho girato virano su quel versante; diciamo che quando hai voglia di emergere, cerchi di cogliere qualsiasi opportunità e nel 1983, quando mi proposero di girare “Vado a vivere da solo” con l'allora promessa Gerry Calà non ci pensai due volte. Non vedo questo film da quegli anni, non so che effetto mi farebbe oggi; so però che è molto rivalutato anche grazie all'uscita in dvd, ma credo che con quei lavori volessi farmi conoscere per realizzare davvero quello che mi interessava.

    “Meri per sempre” ha davvero lasciato il segno. Che ricordi ha di Michele Placido?

    Due anni prima avevo fatto uscire “Soldati”, che denunciava gli effetti deteriori della vita in caserma; Placido ebbe un ruolo decisivo per “Meri”, poiché, dopo essersi innamorato del libro omonimo di Aurelio Grimaldi, propose al produttore di fare il film. Quando nomi altisonanti come Moretti ed i fratelli Taviani rifiutarono, fui chiamato io.

    La scelta di portare in scena anche attori presi dalla strada è coraggiosa.

    Già, ti accolli dei rischi, dato che essi non sono supportati da una preparazione tecnica, ma a volte è necessario per rendere le scene il più autentiche possibile. Anche ne “Il branco”, al fianco dei professionisti, misi alcuni ragazzi del posto in cui si girava, mi pare la provincia di Viterbo. Venni molto criticato per quella pellicola, in quanto avrei raccontato con eccessiva acredine un fenomeno non facile, mettendomi dalla parte dei carnefici; ma mi sembrava una prospettiva originale da cui partire.

    E negli ultimi suoi film arriviamo a toni più distesi.

    Sì, c'è un ritorno a certa commedia, ma con una punta di satira che fa riflettere; in “Nel continente nero” vivevano velate critiche ad alcune manie di certa Italietta ad esempio. Fui esortato a non fare uscire “L'ultimo capodanno” da mio padre, che rimane il mio critico peggiore; in effetti il film non ottenne grande successo dalla stampa, ma molte persone mi dicono di apprezzarlo parecchio.

    In sostanza che cosa vuol dire fare cinema?

    Per me il parametro numero uno per un regista è avere una bella storia da raccontare, una vicenda della quale lui sia il primo fautore; e poi mai prendere in giro il pubblico, perchè la gente è troppo intelligente per non accorgersi che stai bluffando. Se rispondi a questi due criteri, eventuali critiche saranno non ti bruceranno, in quanto hai fatto il tuo dovere con te stesso e gli altri.

    Prossimi impegni?

    Un film tv in uscita a gennaio 2008 su canale 5, dal titolo “L'ultimo padrino” e basato sulla figura del boss Provenzano. Dopo tanti anni torno a lavorare con Placido, sono certo che la cosa sarà di buon auspicio.
     
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5 replies since 25/1/2008, 16:53   139 views
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