Black Swan

di Darren Aronofsky

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  1. macina
     
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    CITAZIONE (raystorm @ 4/3/2011, 14:52) 
    “Il Cigno nero” cannibalizza lo sguardo e obbliga ad azzerare il cervello in favore del cuore, trasportandolo in una metropoli di follie interiori dalla quale non c’è possibilità di ritorno, un vero e proprio cortocircuito dei sensi, ove lo spettatore attraverso la protagonista sarà costretto a osservarne il lato oscuro, in un masochistico gioco di riflessi, ove la realtà e l’incubo s’intrecciano senza soluzione di continuità. Darren Aronofsky filma allo stesso tempo la sua opera più completa (non la migliore) e personale, dove l’estetica e i temi a lui cari, si sposano alla perfezione, riuscendo a generare emozioni forti e mai contrastanti con un impatto visivo debordante ma elegante al tempo stesso.

    Si apra la claque per Ray. :wub:

    Come tanti di voi/noi, sono rimasto quasi traumatizzato dalla potenza espressiva ed evocativa di questa mirabile opera di Darren Aronofski, il quale a mio giudizio ormai da tempo (diciamo da The wrestler) si è guadagnato un posto nel ben impaginato libro dei registi più bravi al mondo. Dico da The wrestler senza voler per forza elevare quella pellicola al primo posto nella sua filmografia, ma perché l'impatto che ebbe fu debordante anche solo per avere nel ruolo di protagonista sua maestà Mickey Rourke.

    Avete già detto quasi tutto o tutto voi, io approfondirò un altro aspetto che mi pare importante.
    Ovviamente premetto che la recitazione della Portman è sconvolgente per intensità e forza, che la bravura del resto del cast è da applausi (la Kunis ottima, Cassel meraviglioso e che dire della madre Barbara Hershey; ah, Aronofski si permette il lusso di far fare solo un cammeo a una come Winona Ryder!) e che il film è una lenta ma inesorabile litania verso lo spettatore.

    Guardavo il regista negli extra durante il backstage e cercavo di intravedere in quegli occhi che cosa l'abbia spinto a dare luce (o ombra...) a qualcosa di tanto tormentato, di tanto profondo, capace di scavare nelle pieghe nell'anima. Durante la visione mi sono meso nei panni della protagonista Nina e, sebbene mi sia incollato letteralmente alla sedia e abbia provato brividi in più di un'occasione, mi sono stupito e a volte scandalizzato per la cattiveria dilagante. Aronofki spinge il piede sull'acceleratore sulla brutalità e la violenza non la trova, un po' come Haneke (ma il regista austriaco poi concretizza on modo del tutto diverso), nel palese, nel visibile, bensì all'interno del cuore delle persone. Nina già di suo ha un carattere insicuro, è oppressa da una madre castrante e iprcontrollante, soffre di ansia da prestazione, si è vista annullare la sua componente istintuale per far prevalere quella che anela alla perfezione. Mi sono quasi chiesto che necessità c'era di gravare così tanto. Ma Aronofki è un regista eccessivo, a suo modo estremo, in cui pulsioni e realtà diverse si sovrappongono in chiave distruttiva (o autodistruttiva).

    Insomma che cosa ha spinto il regista a andare così con il coltello nell'anima della protagonista e nei sentimenti? Aronofski padroneggia in modo meraviglioso queste dinamiche e si esce dalla visione esausti e quasi felici che sia finita.

    Lo confesso: questo film mi ha provato molto, mi è entrato nella carne.

    Credo che una riflessione del genere sia importante per mettere in correlazione l'opera con i tempi in cui è inserita. In questi anni molti uomini e donne, molti di noi, sono chiamati per lavoro e anche nei rapporti umani a essere performanti (un neologismo che reputo stupendamente indicativo dei tempi che corrono: "to perform", ecco cosa ci viene chiesto! OFFRI UNA PERFORMANCE), precisi, la qualità del nostro operato è sotto gli occhi di tutti e in alcuni casi basta una virgola a farci sgridare, correggere, squalificare. Ecco l'attuale incidenza delle vicissitudini di Nina, in cui tutti possiamo rivederci perché sappiamo quanto è stancante dover dimostrare qualcosa a qualcuno e... Prima di tutto a noi stessi. Di valere, di essere accettati, di essere in grado.

    Poi ovviamente c'è tutto il resto: la danza come metafora delle perfezione, il tema del doppio (fondamentale se legato al discorso di cui appena sopra), la madre che, fallita lei stessa da giovane, deve avanzare delle aspettative sulla figlia salvo poi dirle "Lo sapevo che non avresti retto".

    La schizofrenia in cui sfocia l'ossessione di Nina allora, in modo allargato ma a mio avviso calzante, è la macro-metafora dei tempi che viviamo.


    Voto: 9 (perfino a salire forse)

    Edited by macina - 9/12/2013, 14:45
     
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