La Grande Bellezza

di Paolo Sorrentino

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  1. nic_baker
     
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    Terza visione del film più discusso degli ultimi anni, potevo e dovevo fermarmi alla prima, ho voluto concedergli una terza quando l’eco degli oscar è definitivamente finito.

    Anni prima che il film vedesse il buio, già si parlava di un nuovo «La dolce vita», poi Sorrentino si è indispettito e ha detto che non è un remake –ma va?- e nemmeno un omaggio, sicuramente c’è l’influenza del capolavoro di Fellini, questo non l’ha negato, anzi. Ma al di là di quale rapporto leghi i due film mi torna utile fare riferimento al film di Fellini.
    La dolce vita prima di uscire nei cinema cannibalizza l’attenzione pubblica, articoli di giornali, storie e leggende sul film contribuiscono ad alimentarne il mito, e come è prevedibile all'uscita ci sono code infinite davanti ai cinema, con le folle spinte dall’equivoco –che Fellini non si è preoccupato certo di chiarire- che il film fosse uno scandalosissimo affresco con streeptease, orge e quanto più di depravato fosse lecito aspettarsi nel 1960 .
    La grande bellezza cannibalizza l’attenzione pubblica, nei limiti in cui il cinema oggi può essere al centro di un dibattito pubblico. Non ci sono folle, quelle no, ma un pubblico sì, il film, mesi prima che si parlasse di Oscar, debuttava al secondo posto.
    Questa volta la spinta non arriva dalla promessa di orge-degne-di-tiberio, la spinta tocca corde ben più profonde, cioè quelle dell’arte. La promessa che il film fa allo spettatore è che ciò che vedrà è Arte, un film che non ha bisogno di una trama, è un lunghissimo flusso di coscienza, la promessa che ci sarà la noia contemplativa, profonde riflessioni in voce over scandite in tono pachidermico. C’è la promessa che a farsi piacere, ma soprattutto a «capire» il film ci si possa sentire superiori, anzi si debba.

    Ci abbiamo messo anni a costruire un vocabolario e un frasario che ci venga in aiuto davanti a film del genere, ma soprattutto in aiuto è venuto Sorrentino che a più riprese ha insistito sull’esperienza-del-film più che sulla ricerca di un senso ultimo.
    È l’esperienza-dell’arte, e quindi tutto si può descrivere così con “sublime” “simbolico” “grandioso” “geniale” “immenso” “complesso” “emozionante” “eccedente” “magico”…
    E si può annullare ogni critica al film appellandosi al “non capire” “non sentire” “non cogliere”, o, ancor peggio, citando una critica “autorevole”, si può ricondurre ogni critica al film al fatto che non si possa reggere tanta Arte «chi ha sminuito questo spettacolo per non sentirsi annientato, polverizzato dall’arte che gli era caduta addosso» (espresso)

    Ma oltre all’arte e al suo mistero, cos’è il film di Sorrentino? Un Affresco, o almeno quasi ogni critica/pensiero sul film finisce lì, a fare leva su quanto sia preciso e puntuale l’affresco che Sorrentino fa della nostra società-

    Un ritratto dunque, ma di cosa? Del presente, ma ancora più specificatamente di quello che da vent’anni è il presente nell’immaginario comune, è il ritratto di tutti quelli che “vent’anni di Berlusconismo” “degrado culturale” “degrado morale” “decandenza” “superficialità”, il film di Sorrentino non ritrae, asseconda. La dolce vita intercettava la decadenza in un momento di euforia generale, distruggeva il mito del tutti si arricchiscono, del si vive meglio, del futuro mai così roseo, il mito della Roma simbolo del progresso, metteva in immagini la superficialità e il vuoto della vita mondana a Roma. Sorrentino non intercetta nulla, si infila in un contesto che da almeno due decadi ripete stancamente un ritornello pessimista. Il film di Sorrentino è in ritardo di almeno vent’anni su tutto se è di un affresco che si vuole parlare.
    Se invece il terreno si sposta sul linguaggio cinematografico, il ritardo è di 50 anni su molto e di 15 sul resto –i flash back non hanno nulla in più delle pubblicità di intimo girate in qualche isola-.
    Ma il film non è solo un affresco sul presente e/o un’esperienza artistica, soprattutto molti hanno insistito sull’universalità dei temi trattati, sul fatto che il film in fondo fosse un affresco della condizione umana.
    Forse. Ma davvero c’è da sbrodolarsi davanti al simbolismo del film? Davanti ai fenicotteri rosa, alla bambina che fa quadri, a Suor Maria?
    Può darsi, ma non per me.
    Collateralmente è il picco della degenerazione del servillismo, parabola di un attore bravissimo che è diventato una maschera «teatrosa» che occupa e tiene in ostaggio il cinema italiano da anni. È il picco dei cliché del cinema d’autore.

    Evidentemente, mi pare sia il più grande film sul bisogno di “un’esperienza artistica”, sul bisogno di sentirsi superiori, migliori, di staccarsi da tutto ciò che ci circonda. Involontariamente, più che un affresco 10 anni in ritardo su Cafonal, il film di Sorrentino è il lenitivo migliore per chi soffre dei “vent’anni di Berlusconismo” del “degrado culturale” del “degrado morale” della “decandenza” della “superficialità”. Fellini disattendeva le promesse, Sorrentino le mantiene, c’è la noia contemplativa, c’è la certezza che non si possa parlare di trama, di generi e di altre cose “basse”, c’è la certezza che sia un’esperienza artistica. Fellini inventava e coniava il termine “progressenza” progresso più decadenza. Sorrentino asseconda vent’anni di piagnisteo assicurando una piccola isola felice in cui sentirsi un po’ piò lontani dalle cose “basse” che ci circondano. Poco importa se con un campionario di brutture e superficialità.
     
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40 replies since 22/5/2012, 21:58   1438 views
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