Resident Evil: The Final Chapter

di Paul W.S. Anderson

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    Le mie labbra cercano il piacere nei posti più inaspettati

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    Resident Evil: The Final Chapter – Lunga vita a Milla Jovovich

    Il mondo è distrutto, dilaniato dalla piaga del virus “T” che ha condannato all’estinzione la quasi totalità degli esseri viventi, i pochi rimasti tentano di sopravvivere e respingere gli assalti dei mostri creati dall’arma biologica fuoriuscita dai laboratori della Umbrella. In mezzo a questa devastazione Alice (ancora una volta Milla Jovovich), combatte da oltre dieci anni creature di ogni tipo nel tentativo di arrestare questa apocalisse. Dopo tutto questo tempo viene a conoscenza dell’esistenza di un anti-virus che metterà fine all’orrore, ma per farlo dovrà ritornare nel luogo dove tutto è iniziato, l’alveare, il laboratorio sotterraneo della Umbrella che custodisce più di un segreto. Sesto e apparentemente ultimo capitolo della saga adattata da Paul W.S. Anderson dal videogioco Resident Evil di Capcom che tenta di mettere la parola fine alla storia iniziata nel 2002, che ha sempre percorso una via parallela alla controparte elettronica inglobandone al proprio interno personaggi e ambientazioni a proprio piacimento (ma sarebbe più corretto “uso e consumo”). Anderson in questo sesto capitolo dirige con rutilante intensità primitiva scene d’azione che fanno della totale alienazione dello spazio la loro cifra visivo/stilistica. In “Resident Evil: The final chapter” ad interessare non è più lo spazio piccolo e ravvicinato ma quello ampio ed aperto, più la camera si allontana dal fulcro dell’azione, maggiormente riesce a spettacolarizzarla, per poi tramortire nuovamente lo sguardo con fotogrammi ravvicinati che si susseguono ad un ritmo schizzoide che rende incomprensibile forma e spazio di quanto si sta vedendo, riducendo la percezione ad una versione semplificata del concetto di azione e reazione. In questo film si passa da situazioni dove scene statiche che non raccontano praticamente nulla, si alternano ad una gran confusione quando appare nello schermo una sequenza d’azione. Il corpo del cinema è portato oltre qualsiasi tipo di eccesso visivo/stilistico, oltre il linguaggio stesso che lo compone risultando incomprensibile ma paradossalmente molto più godibile di quando in precedenza si tentava di raccontare una qualche evoluzione di trama e personaggi. Quello che resta alla fine di questo “Grand Guignol” cinematografico è una strana sensazione di divertimento e la certezza che il merito più grande della saga non sia stato l’aver portato al cinema un videogioco, ma aver sdoganato la fisicità di Milla Jovovich, unica vera star femminile del cinema d’azione moderno. La sua Alice sono l’unica cosa che alla fine mancherà di tutta una serie di pellicole che non avrebbero senso alcuno se non fossero rappresentate dalla fisicità dell’attrice Ucraina.
     
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