Una Vita Tranquilla

di Claudio Cupellini

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  1. Kurtz
     
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    L’apertura, prima ancora dei titoli, un pugno di fotogrammi su una caccia a un cinghiale, ci immerge perfettamente nell’humus narrativo ed emotivo del film. Una storia che galleggia in quell’atmosfera rarefatta, che sembra preannunciare il peggio ma centellinando con sapienza, e al momento più adatto, le informazioni per farci completare il quadro.
    Eccetto l’ultimo tratto del film, l'intreccio si dipana in una sorta di limbo semiminaccioso le cui premesse vengono però sempre rinviate. Più che di tensione si deve parlare di sospensione, servita spesso dai primi e primissimi piani, che sarebbero l’antitesi di un racconto concitato e dimostrano la volontà del regista di raccontare l’interiorità dei personaggi, l’evoluzione dei loro (non)rapporti, una risoluzione edipica che sfocia ineluttabilmente dentro le grinfie del noir. Sono entrato in sala soprattutto spinto dalla curiosità (confermata a pieno titolo) di assistere all’ennesima prova magistrale di Servillo (non a caso premiato a Roma proprio ieri sera), ma temevo anche un film più derivativo di quanto si potesse accettare, e invece Cupellini riesce a smarcarsi perfino dalle similitudini più evidenti (anche a pre-visione), dalle atmosfere sospese de Le conseguenze dell’amore, film che condivide non poco con Una vita tranquilla, anche se in fondo parliamo di due personaggi dai caratteri praticamente opposti (o quasi); Cupellini raffigura con rapide pennellate, senza moralismi, la manovalanza della camorra, attraverso una buona direzione degli attori, dimostrando di aver digerito la freddezza d’analisi di Gomorra. Ma Una vita tranquilla ha poi il coraggio di andare per la sua strada. È subito chiaro che al di là del riferimento all’immondizia, come aggancio realistico alla narrativa del film, a Cupellini interessa soprattutto il rapporto tra padri e figli, il dramma interiore che sfocia in tragedia più che la registrazione della cronaca. Centro di questo arazzo è il volto e l’espressività di Toni Servillo, la cui performance d’attore ormai sembrano fatte apposta per mettere a dura prova l’umile aspirante recensore. Non c’è aggettivo o locuzione che possa sintetizzare fino in fondo il lavoro di quella maschera perfetta, di quello specchio di sofferenza tirata e sottaciuta, servita da una recitazione volutamente di sottrazione. Prendete la sequenza a tavola, piazzata verso il denouement del film: tutti i personaggi seduti uno di fronte all’altro, le coperture ormai saltate eppure la finzione mandata ancora avanti come un nastro. A Servillo basta passarsi le mani sul viso, stendere e tendere i muscoli della faccia, la carne barbuta del viso per rappresentare lo sconforto, il turbamento e insieme la maturazione di un’idea che prende forma nella mente del personaggio. Sembra di vederlo strapparsi la maschera dal volto mentre tenta disperatamente (ancora) di restare in equilibrio tra la sua nuova vita e i metodi di quella che s’è lasciato alle spalle e che rischia di trascinarlo di nuovo dentro; una bara, per la precisione.
    Il finale è in puro stile noir. L’eterno ritorno dell’oscurità sommersa non porta che a un'eterna partenza, un nomadismo continuo, espressione di una fame di vita, di un istinto di sopravvivenza che incolla l’ultima creazione-fotogramma di Servillo alle maschere mostruosamente umane di cui sono popolati i rulli del cinema italiano.

    8.5

    Edited by Kurtz - 7/11/2010, 02:15
     
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18 replies since 4/11/2010, 11:59   248 views
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